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martedì 25 aprile 2023

Poesia / Percezioni: Respiro breve il mio, il nostro (da Ambigua-Mente Poesie).


Eccomi qua, tra la Rosa delle antenate e gli Astri che sono i miei fiori di nascita.
Astri settembrini di tinta Magenta, colore che amavo moltissimo quand'ero bambina.
I disegni delle mie principesse avevano sempre i vestiti sontuosamente dipinti di Magenta.
Vaporosi, fluttuanti nelle gonne, a giustacuore nei corsetti. Il manto, invece, si connotava di tutte le sfumature del cielo: dal Bianco, all'Azzurro, al Celeste. Blu intenso in genere ai bordi, rifiniti anche di qualche tocco d'Argento. Metallo di cui immaginavo fatta la tiara che portavano sui capelli, molto lunghi e ribelli e neri ala di corvo. Un po' spettinati dalla Bora.
Più streghe che principesse, forse.

Irene Navarra, La Rosa antica, gli Astri settembrini, la Rete, Fotografia, 2014.


Ed eccomi ancora, sull'onda del ricordo, in una lirica che mi rappresenta come la Rosa antica e gli Astri settembrini e la Rete di ferro battuto da cui, simbolicamente,
sono trattenuta al di qua del pieno circuito esistenziale.
La casa e il giardino sono per me rifugi inalienabili.
Benedetta sia la Rete.

Di Astri settembrini
è fatta la vicenda
che si evolve e muore
nell’arco di un respiro.

Respiro breve il mio, il nostro.
In aspro contrappunto
a quello della patina di crespo
– un flusso eternamente –
dove s’incaglia
questo vivere di gelo.

(Da Percezioni, 2005 - 2023. In editing come: Irene Navarra, Ambigua-Mente Poesie - [© Tutti i diritti sono riservati].

Per saperne di più sul mio stretto rapporto con gli Astri settembrini, clicca Qui. Accederai così alla pagina loro dedicata in correlazione, peraltro, con la mia nascita.


sabato 8 aprile 2023

Poesia / Diario: La bellezza collaterale - So dove ritornare (Itaca).

Ognuno ha la sua Itaca.
E il suo Mito del Ritorno.
Omero ci indica la strada, mentre racconta il viaggio "per cui bello di fama e di sventura / baciò la sua petrosa Itaca Ulisse" (Ugo Foscolo, A Zacinto, vv. 10 - 11).

La mia è un'Itaca semplice. Ha la consistenza delle dolci abitudini del giorno dopo giorno, a passi lenti lungo i tratturi di una Terra che mi ha vista nascere, con accanto le creature che mi sono compagne e quelle che lo sono state nel passato: i cari animali che avvicinano a Dio.
Nessun ostacolo mi ferma. Nemmeno i limiti fisici riescono a bloccare i voli del cuore e della mente. Vado, comunque e sempre, per i campi e le vigne di un luogo benedetto ai piedi di colline azzurre e ingentilito dalla cintura turchese del fiume Isonzo.
Vado.
Con gratitudine.

Irene Navarra, La mia campagna / Itaca nel cuore,  Fotografia, 13 Marzo 2021.


So dove ritornare.
Ho una mappa segreta
che ripercorre tappe e intoppi del cammino.
Questi secondi sono i più importanti:
riguardano la formazione.
E l'agnizione di quanto vero è in me.
Itaca sta in ogni punto dell'itinerario.
Come una musica sublime di Sirene 
intesse il viaggio
ma spesso viene da lontano.
E allora intendo che non mi appartiene.  
Certo, amo il mare.
Certo, amo i calanchi del Carso martoriato,
i suoi Fiori di Pietra,
ma ciò che sento come una radice poderosa,
come la linfa di millenni articolati dentro il corpo,
è la mia campagna.
Quell'umile inseguirsi di terreni incolti
con qualche vigna a incorniciarli
e la corona di colline sacre intorno
a farne nicchia di valori immensi.
Là ritornare è un rito che non conosce requie.
Là ritornare avendo per compagni Pippo Setter
in caracollo al fianco
e gli altri cani, un gatto e una cavalla ancora nitidi nel cuore
e ancora vivi, in corsa verso me solo al richiamo,
e pronti ad annunciare: Irene, andiamo.
Non serve avere buona voce.
Basta chiudere gli occhi,
allentare le membra, non pensare.
E formulare l'intenso desiderio di avvertirli
per poi vederne l'arrivo a balzelloni,
negli occhi un'unica intenzione:
Andiamo.

Strano gruppetto il nostro!
Un cane vecchio in carne e ossa, tre cani d'aria luminosa,
un gatto sulla spalla che non sente peso
e una cavalla un tempo bianca e bigia, ora di nuvola leggera.
Lei mi sovrasta da dietro con la testa
e adegua il passo al mio.
Fa da retroguardia.
Suggella il cerchio prodigioso 
di questo sodalizio occulto.
Così si va.
Nell'intima letizia del Ritorno quotidiano.


venerdì 7 aprile 2023

Poesia / Tanka 34: Il destino del Tramonto.


Irene Navarra, Dentro il Tramonto, Fotografia e Grafica. 

Gridando rosso
al cielo che s'oscura
muore il Tramonto.
Dentro la terra nera
troverà pace.
#Tanka34

Le stelle annoteranno con un sorriso
da lontane lucciole frementi
che è la loro Volta di brillare.
Sanno
- con la saggezza di chi guarda dall'alto -
che tutto nasce per poi morire.
Ciclicamente.

U-May

sabato 1 aprile 2023

Prosa / Racconto: È solo questione di tempo (da "Davvero così").

 


Fotografia di Daniil Komov da Pixels.

      
     La decisione di Benedetto

     Da molto non parlava con nessuno. Intendiamoci però, non è che nessuno gli rivolgesse la parola, lo considerasse o cercasse di coinvolgerlo in discorsi di un tipo o di un altro, è che non era in grado di conversare, e per un motivo molto semplice: non udiva le voci di chi aveva davanti. Gli si era inceppato un ingranaggio, delle rotelle avevano smesso di girare. Al minimo approccio, al più sciocco dei convenevoli, Benedetto dava sulle prime un segno d’intelligenza giacché fissava le persone con interesse ma, all’istante, cadeva in un’atonia imperturbabile, agghiacciante per gli interlocutori. 
     Chiuso in un silenzio agro, osservava senza mai replicare.
     Per chiarire da subito: Benedetto non era diventato sordo. Benedetto non sentiva gli accenti umani, avvertiva invece benissimo quelli della natura. I fiumi, il vento, la pioggia, gli animali intessevano i loro messaggi alle sue intime commozioni. E lui li interpretava senza difficoltà, mescolando assensi segreti al linguaggio di ogni infinitesima goccia d’acqua gli accarezzasse il volto, di ogni alito di brezza gli scompigliasse i folti capelli bianchi tenuti alla selvaggia.
     La mattina, appena alzato, usciva nel portico e si accomodava su un seggiolone di quercia, ovattandosi in un’estasi straniata che si protraeva sempre a lungo. Ore, per dirla con una parola indicante parametri logici. Tempo dilatato talvolta, tempo puntiforme talaltra, per dirla in un modo vicino a quello di Benedetto, che lo captava rarefatto o condensato a seconda dell’umore e di quanto favoriva quella sua propensione. I fenomeni stagionali, per esempio. Alcuni lo assorbivano in malie a dir poco obliose. Il cadere delle foglie in autunno e la fragile danza dei fiocchi di neve gli inducevano addirittura una sorta di trance restia a dileguarsi.
     Nell’attimo in cui si installava su quel suo trono di legno iniziava un’esperienza salutare. Segni referenziali epurati via via del superfluo, vista e udito selezionavano quanto non era nuda memoria o espansione dell’anima, eliminandolo.
     Con i sovrasensi di recente sviluppo Benedetto si librava sul mondo delle macchine, delle ciminiere, delle case-alveare, degli uomini, delle loro bazzecole, e se ne svincolava. Per gravitare poi, più assennatamente lieve, nel nido del suo cuore.
     Dove pativa meno.
     Pativa meno cioè nell’urna di se stesso e durante le fortuite occasioni in cui riusciva a distinguere gli uni dagli altri: gli zirli dei merli in ansia per i pulcini, il canto del fringuello alla cerca di chicchi appetitosi, il colpo frequente e cupo del picchio rosso sul tronco del susino decrepito. Se riusciva a sorprendere il crescere dei fili d’erba, come diceva all’inizio della sua storia di autoemarginazione, quando si cimentava nello spiegare la scoperta ai pochissimi che s’illudeva capissero.


     La ricerca

     Benedetto era stato un uomo normale.
     Aveva avuto una moglie di nome Elena e una figlia di nome Arianna. Due stelle del cielo. O meglio: le sue costellazioni per l’orientamento. Il Nord, il Sud, l’Est e l’Ovest convergevano nei sorrisi, nelle reciproche premure, nel loro armonioso stare insieme.
     Finché non furono uccise.
     In un crepuscolo di primavera.
     Da un pazzo che guidava a mille, ubriaco fradicio.
     Lui, il mostro, era sopravvissuto. Ferito gravemente ma vivo, venne estratto dai rottami della sua Porsche rossa e se la cavò con dei mesi d’ospedale.
     Loro, nella Mini d’argento comperata da un mese, se ne andarono tenendosi per mano.
Elena a quarantadue anni, Arianna a sedici.
     Tutto finì, dunque.
     Anche per Benedetto.
     Che, comunque, nei primi mesi di solitudine, continuò a insegnare scienze nel liceo in cui era cresciuto e dove era ritornato fresco di laurea. Continuò a sembrare l’uomo di sempre. Troppo freddo però, a detta degli amici che gli rimasero accanto dopo la disgrazia; troppo indifferente, con una luce indecifrabile negli occhi asciutti, un’inflessione da automa nella voce, un che di meccanico nei gesti. Da preoccuparsene insomma, da azzardare degli inviti: una cena, un giro in bici, una scarpinata nel bosco per funghi.
     Benedetto permettendo.
     Ma lui non permise mai. Anzi, incominciò a non rispondere al telefono, a ignorare le scampanellate alla porta. Si chiuse al mondo. Si acconciò un bozzolo di nebbia che nascondesse quanto non voleva vedere, da sigillare o dissigillare a seconda delle urgenze emotive.
     In quel suo microcosmo Benedetto cercava un bene bastevole a sé, un bene conforme ai cicli naturali. Livellarsi in essi era, forse, una via percorribile per compensare la perdita prematura.
     Con una faticosa sperimentazione Benedetto si sforzava di uniformarsi al nucleo originario di ogni organismo, divenendo la schietta energia che ne dipana le forme e i colori. La strada intrapresa non necessitava di timbri umani. Questi lo riconsegnavano all’urlo di Elena e Arianna precedente la morte. Il loro grido gli inondava il cervello quando pensava all’omicida.
     Di urla si può impazzire.
     E lui, questo, non lo voleva.
     Doveva essere lucido.
     Per limarsi, assottigliarsi fino a scomparire.
     Rotolava Benedetto, verso il nulla. Riflettendo in continuazione. E ponendosi una domanda: Come raggiungere il tempo immobile di chi non è più, nel rispetto dell’ordine biologico?
     A ciò si applicava di lena scrutando il cielo, gli astri, e pregando. Un Dio senza nome, per cui il passato fosse in eterno presente.
In Lui le avrebbe ritrovate.
     Per esercitarsi, iniziò a sfocare i contorni delle cose, con metodo. Divenne tanto abile da riuscire a notare solo l’essenziale. Tutto in definitiva fu dissolto, tranne le fotografie di Elena e Arianna sul tavolino del salotto, e la carcassa della Mini, perché le aveva serbate nel passaggio alla morte. Le rose rampicanti piantate da Elena alla base delle colonne del portico, le considerava le custodi della sua astrazione. Simboleggiavano la forza del ricordo con il miraggio di polpastrelli sui tronchi ormai irrobustiti. Piante floride, ma destinate anch’esse a disgregarsi nel rattrappire della materia. Un’unica passeggiata si concedeva dall’incidente: il pellegrinaggio al deposito dove la vettura giaceva sotto sequestro. Appoggiava due mazzolini di anemoni variopinti nell’abitacolo semidistrutto e ritornava veloce a casa. Del processo istruito contro chi gli aveva oscurato le sue stelle non gliene importava. Poteva forse ridargliele? Aveva senso, quindi, parteciparvi?
     Retorica la risposta.
     Insita nel vuoto che lo abitava.
     Così, da un giorno all’altro, al lavoro non ci andò più. Si era ritirato in un guscio introverso e si contentava di quasi nulla.

     A due anni di distanza dalla disgrazia, Benedetto aveva la consapevolezza di procedere ormai speditamente verso la soluzione. 
     Se lo sentiva nella pelle: stava per arrivarci, avendo risolto la questione del tempo.
     Il presente doveva diventare passato a velocità vertiginosa per ricongiungerlo a Elena e Arianna proprio là imprigionate.
     Il futuro era l’attesa che non voleva.
     Costringendo il suo corpo a una consunzione graduale avrebbe percorso una sorta di itinerario all’indietro e raggiunto l’inspiegabile di cui era fatta la sua anima, di cui erano fatte Elena e Arianna. Non si trattava di suicidio per intenderci, no di certo! Il problema non si poneva in tali termini. Sapeva di non poter riconquistare la felicità perduta nella violenza di una morte autoinflitta. Doveva familiarizzare con lei fino a carpirle il sapore.
     Centellinandola.
     Se ne sarebbe andato nell’innocenza assoluta, come un albero privo di nutrimento.


     La gazza

     Quella mattina il sole sembrava una pesca succosa e impregnava il giardino della sua resina infuocata. Le prugne mature – si era ad agosto – si gonfiavano di linfa e facevano scricchiolare i rami appesantiti, le lisette cremisi delle bordure frusciavano per trafugare un rimasuglio d’umidità all’atmosfera già cocente, i merli schiamazzavano, le cince berciavano, uno scoiattolo dal muso di fauno faceva capolino tra le foglie del vecchio ciliegio, le vespe ronzavano attorno al favo appeso sotto la grondaia del portico. Vicino allo stagno i ghirigori aerei di alcune libellule Agrion – le elitre vibranti di violetti e verdi – contrastavano con la fatica di una splendida Anax che arrancava sulle zampe, non fatte per camminare ma per attaccarsi ai rami delle postazioni di sosta.
     Inconsueto comportamento per una libellula predatrice dell’aria!
     Benedetto, però, lo sapeva il perché.
     Se l’avesse presa prudentemente con le dita e rigirata ad addome in su, il motivo sarebbe apparso manifesto. Uno squarcio, un’orrenda mozzatura degli organi vitali, ecco la spiegazione! Violata da un’insignificante formica terragnola brancolava ancora sul terreno, forte del motore muscolare intatto e degli enormi occhi complessi volti a mete irraggiungibili.

     Benedetto conosce il vuoto della libellula.
     Divorato di sorpresa, costretto a terra, si muove per residui di conduzione nelle guaine neurali.
     Il cuore gli è stato reciso e portato via.
     Lui e la libellula hanno subito la stessa sorte.
     Seduto sul seggiolone di quercia, assiste immobile alle frenesie dell’alba estiva e ne archivia mentalmente le varianti. Si accorge di una gazza piuttosto eccentrica che raspa tra le tegole del tetto della rimessa, scoccandogli furtive sbirciatine.

     Il bellissimo animale dai magnifici riflessi blu elettrico sulle ali e sulla coda si aggirava nei paraggi da un po’. Compariva all’arrivo di Benedetto in giardino e lo fissava, negli occhi uno sbrilluccichio di zaffiro, confidenziale e garbato.
     Controvoglia Benedetto lo ammetteva: era di compagnia e rallegrava. Cose, queste, da evitare, rifletteva perplesso. Non erano parte del programma e non lo aiutavano nel disegno ineccepibile architettato a tavolino.
     Cosa sarà mai una gazza! si ripeteva quando gli zampettava vicino emettendo versi flautati, dissimili dai tipici della specie. E l’esclamazione interna, una volta espressa, la ricusava istintivamente per permettersi di sogguardarla ancora, quella gazza leggiadra, attirato dalla levità delle movenze e dal grazioso volgere del capo, se lui si scostava.
     Stravagante uccello! Diverso dagli altri.
     Offriva…, che cosa? Offriva ristoro.
     Formulata la risposta, Benedetto se ne vergognò di colpo, ma non la scacciò.
     Capì in breve di non poterne controllare l’eccezionalità. L’avrebbe accettata, studiata con la prudenza con cui aveva indagato le fasi degli astri. Le cose non potevano cambiare, aveva imboccato la strada giusta, non avrebbe deviato per una gazza dagli occhi di zaffiro. Si obbligò a crederla una fuggevole distrazione, cercò anzi di non darle troppo peso, non voleva affezioni di nessun genere, intoppi di sentimenti che fermassero il presente in un tenero corpo piumato, nell’eleganza di ali aperte in volo. Urgeva ridimensionarla a elemento del paesaggio, insomma. Era come gli alberi, i fiumi, i tramonti. Da registrare con i sensi e da vivere con inerzia. La studiava sicuro di un fatto: la sua labilità ben più accentuata di quella dell’uomo. Un giorno non lontano l’avrebbe vista in bocca a uno dei tanti gatti randagi del quartiere. Allora, si sarebbe voltato dall’altra parte senza scomporsi. Ma, al solo abbozzare la congettura, rabbrividiva involontariamente. E si spaventava e interrogava.
Rabbrividire d’orrore per l’eventuale morte di una gazza? Com’era possibile?
La fiducia nella scelta fatta all’inizio, immediatamente dopo la disgrazia, vacillò. Si sentì perduto. Occorreva provvedere con una contromossa. 
     Chiudendosi in casa.
     Lei fuori, lui dentro.
     Per quanto possibile avrebbe imitato un Tomiside, ovvero uno dei numerosi ragni-granchio del giardino abili a nascondersi nei fiori delle ombrellifere con secreti cromatici mimetizzanti. L’estremo tentativo di specializzazione per sottrarsi all’assedio timido della gazza implicava una sola alternativa: l’isolamento ulteriore, senza titubanze. Per quanto possibile.
     La natura, da quel momento, l’avrebbe semplicemente immaginata. Sarebbe diventato cieco.
     Un cieco particolare.
     Com’era sordo in modo particolare.

     
     Silvina

     Il campanello di casa squilla aggressivo, Benedetto è sul divano informe del salotto, informe egli stesso. Si stancheranno, ansima abulico, determinato a non alzarsi, a non fare la fatica di quei pochi metri, a non aprire per nessun motivo.
     I trilli elettrici gli perforano il cervello. Deve escogitare un modo per levarseli di torno assieme agli altri disturbi sonori. La periferia cittadina si sta estendendo con nuovi cantieri a danno della campagna e il chiasso in crescita mette a dura prova il suo laborioso addestramento. Teme di non poter cogliere l’attimo in cui le voci amate gli sospireranno la formula a lungo cercata. Deve decidere qualcosa. Di definitivo. Non vuole cedere dopo tanto impegno.
     Dormirà durante il giorno.
Del sonno penoso e interrotto che non ti fa riposare e ti rompe le ossa, ma serve perché educa all’addio. Separandoti dalle sollecitazioni del mondo.
     Di notte, invece: la veglia.
     Nel silenzio, l’ascolto.
     Pressoché senza interferenze tranne: una macchina in corsa, la stridula frenata, sirene. Suggestioni acustiche, queste, di cui non può disfarsi perché hanno la scorza coriacea della tragedia e si ripresentano spontanee, condizionate dal subconscio ed evocate da un fulcro di puro dolore. Indipendenti dall’opera dell’uomo. Forse il cenno asettico di quel Dio senza nome che, per abituarci al commiato, toglie la quiete non risparmiando nemmeno la lente pastello dell’alba. L’alba: meravigliosa per chi, non ancora toccato dalla sofferenza, aspetta il riaccendersi del giorno come un dono; ciarlatana da quattro soldi per chi, schiacciato da drammi insopportabili, ne avverte l’inganno da soap opera e smaschera la lusinga del rigenerarsi.
     Il campanello si fa arrogante. Ripete un driiiiin ostinato. Benedetto si accartoccia, le mani sulle orecchie. Abnormi risonanze forano le pareti, graffiano il suo torpore. Un batacchio gli percuote le tempie. Nell’aria torrida, con la lentezza di un bradipo, si disviluppa, si alza, va alla porta.
     Schiude uno spiraglio.
     Ci infila la testa.
     Piano.
     È Silvina.

     La conosce da abbastanza tempo. Quanto? Non lo sa con precisione. Silvina ha… (che età può avere?), neppure questo Benedetto sa con precisione. Sottile, un visino dall’ovale nitido, gli occhi di un nero giaietto singolare. Fuggita con la famiglia dallo sconfinato territorio cinese. Un’odissea coronata dal successo, la loro. Il padre lavora in una fabbrica di macchine agricole, la madre cuce a casa. Hanno quanto basta alle loro esigenze.
     Lei ama girovagare. Taciturna e osservatrice, va alla scoperta del mondo circostante, nel cuore la bellezza dei grandi spazi dove è nata. E la sontuosità dell’acqua: abbondante acqua di fiume dalle anse placide che ricorda con chiarezza, sebbene il viaggio verso la vita l’abbia fatto ancora piccina.
     Benedetto se l’è trovata in giardino una mattina d’inverno fredda e tersa. Ginocchia sull’erba irrigidita dal gelo, le braccia esili a mo’ di puntelli, sporgeva pericolosamente il busto sopra lo stagno, in precario equilibrio.
     Vederla e acciuffarla al volo fu tutt’uno. Tenerla davanti al volto (leggera come una gattina!) fu inevitabile. Incrociarne lo sguardo, una delizia.
     Storia presente, quelle pupille dense di presagi.
     Storia che si trasmette di giorno in giorno con delle regole salde.
     L’ha chiamata Silvina.
     Silvina, perché non riesce a pronunciarne il nome cinese. Gliel’ha proposto scarabocchiandolo su un pezzetto di carta azzurra. Lei ha annuito, senza emettere un fiato.
Così, si sono dettati le clausole di relazione: lei avrà libero accesso al giardino passando attraverso un buco della rete che lo divide dai campi incolti. Non gli si deve avvicinare, però, più dell’indispensabile. Potrà coltivare loto e ninfee nello stagno, e allevarvi una coppia di germani, in cambio delle compere giornaliere da depositare davanti alla porta. Di lei non vuole sapere null’altro oltre alle quattro informazioni vergate con una grafia a svolazzi sulle pagine di un quadernino che porta appeso al collo in bizzarro ciondolo. Né baderà a quanto gli dicono i suoi occhi, raramente mesti e molto, molto affascinati da lui.
In breve la sua presenza è accettata e il giardino si ingentilisce per i fiori polposi sulla superficie dello stagno e per i due animali che donano cangianti tremolii all’acqua con le loro livree.
     Da quando c’è Silvina il giardino si è vestito a festa.

     Un triangolo di luce si allarga sul parquet. Silvina spinge con una mano sporca di terra il battente: chiede di entrare. Benedetto accenna di no, lei però insiste e varca la soglia. Attraversa la stanza e gli impone di seguirla verso il portico con un movimento del capo. Spalanca la portafinestra, le imposte, esce nel sole che abbaglia. Lui accondiscende frastornato, la guarda avanzare verso i cespugli di rose rampicanti, fermarsi, la sente modulare un fischio verso l’intrico di rami, foglie, fiori.
     Davanti alle rose, la mano destra chiusa a pugno tra le pieghe del vestito chiaro, Silvina fischia un’altra volta, gli occhi affondati a tratti in quelli di Benedetto.
     Nell’aria c’è il profumo del sole.
     D’improvviso, con un brillare bianco-nero-blu si mostra la gazza, a fianco di Silvina, gli occhi tondi di zaffiro affondati anch’essi in quelli di Benedetto.
     Ora Silvina ha allentato la stretta delle dita, mostra qualcosa. Sul palmo luccica un anello.
     «Credo sia per te» dice con voce limpida. «L’ho trovato sepolto tra le radici della rosa gialla. Dentro c’è un nome: Elena. Mi ci ha portato lei» aggiunge indicando la gazza. «Io la chiamo Cielo.»

     Benedetto piange, folgorato dal presente che gli scoppia nel cuore di rabdomante solitario.
     Sublime, imperscrutabile presente!
     È in noi il tempo immobile di chi non vive più. La vita è la chiave per coglierlo e capire. Lei ci spalanca il suo arcano. Persino dove pare negata sta in allerta, pronta a catturarci.
     Le guance gli ardono per il sale delle lacrime.
     Così, Benedetto dice, cercando accordi antichi:
     «Sì, il suo nome è Cielo».

     E lei, Cielo la gazza, ricama in volo cantilene d’oro.

Irene Navarra

Qui di seguito gli altri racconti pubblicati:

Il Bambinello delle Arpie;

Il ritorno;

Tra le labbra livide della notte;

Le rose rosse;






mercoledì 1 marzo 2023

sabato 7 gennaio 2023

Poesia / Percezioni: L'ala nera (Il tradimento)


Quando un amico ti tradisce la sofferenza che provi è grande.
Lo so perché mi è capitato.
Così ho scritto.
Per cercare di lenire il dolore -
Quel dolore che ancora porto dentro.
Come una ferita,
Purtroppo inguaribile.

Irene Navarra, L'ala nera, Grafica, 4 Gennaio 2023.

 
Pupille stralunate e un vuoto
ricavato a forza di strappare
togliendo scorza a scorza
parole come magli,
scrollandoti di dosso
i segni dell'amico
negatosi caparbio
alla tua storia.

(S’affosca minaccioso
il mare pieno di rottami
e resti di naufragi.
Come se un'ala nera
si aprisse nella nebbia
a farla più distratta di chiarore.)

Banale poi vedere
nella curva scostante delle guance
il tocco di un ricordo buono,
voler giustificare
- col braccio accanto a braccio
sulla tovaglia d'ogni giorno -
complicità solo inventate,
ingenuamente elaborate
con la trafila dell'affinità.

(E il tuo vascello sotto un cielo senza stelle
s'incaglia inesorabile
nel corrugarsi infinitesimo dell'anima
- turacciolo o reliquia -
sbattuta dalle onde di melassa.)
 
Da Percezioni (Ambigua_Mente Poesia), 2005.

lunedì 14 novembre 2022

Prosa / il gran finale (da "Davvero così").

Amo moltissimo questo racconto  perché mi rappresenza appieno.


Irene Navarra, Il gran finale, Disegno grafico. 2022.

    Prima parte

    Il cielo notturno sfavilla di luminescenze vivaci. Fontane magenta, ditate bronzee, guglie turchine frammiste a enormi crisantemi di un arancio sfacciato, rose purpuree, iris dai pistilli giallo zafferano, sontuose dalie lilla-oro, meteoriti di zolfo e smeraldo, torce di rubini, dardi di topazi si incalzano a scrosci e girandole.
    La notte sembra adirarsi, accecata dalla luce, nemica del suo segreto. La linea dell’orizzonte ora si confonde con l’indaco cupo del mare, ora deflagra in scintille che sfidano le tenebre.
    E poi…, il drago. Eccolo il drago.
    Nell’acqua rischiarata da miriadi di fiaccole affiora il manto delle ali aperte, la cresta arcobaleno. A fauci spalancate nel liquido bollore, inarcando la groppa, dimenando coda e zampe, rovesciando la testa, attende la battaglia.
    Turbinio di colori, crepitii, boati, il sibilo di spade sguainate, la caccia, il cavallo nero e il Cavaliere Morte in carrellata sullo schermo del cielo, nella distesa marina. Per qualche istante sospeso. Finché…

    Un clic fortissimo le esplose nel cervello.
    Il Ferragosto finisce qui! si impose Veronica ammirando i fuochi d’artificio, belli da togliere il fiato. Quest’anno il drago non può morire, rimarcò in tono sostenuto controllando a destra e a sinistra se qualcuno la scrutasse con sospetto per il suo sproloquiare solitario.
    Scarse persone presso il faro, eccelso sopra i tetti della città. Nessuno distolse gli occhi dall’incanto del mare.
    Meglio perdere parte dello spettacolo che veder morire il drago. Clic dunque! decise Veronica. Fine della morte del drago, fine della favola cruenta, fine dei fuochi.
    Un flessuoso movimento dei fianchi, una piroetta, e si allontanò nella notte scarlatta per fugaci fiamme fatue.

    La storia della morte del drago continuava a stregarla. La visione era un simbolo, lo sapeva bene. Aveva contenuto il suo destino sin da quando, a cinque anni, l’aveva suscitata contemplando in visibilio i primi bengala, botti, castagnole, bombe della sua vita – mano nella mano del papà – dal terrazzo della loro nuova casa. Meraviglioso e vero era il drago pronto a combattere il Cavaliere Morte nel mare iridescente. Tanto vero da costringerla a gridare: Lo ammazzano! Non voglio!
    Chi ammazzano, chi? aveva chiesto il padre con un graffio di apprensione nella voce.
Ma il drago, papà! Stanno per ammazzarlo. Corriamo, dai, salviamolo!
    La cosa era stata presa come doveva: fantasia troppo fertile…, una preghierina alla Madonna l’avrebbe aiutata..., la camomilla alla sera l’avrebbe calmata.
    È un soggetto ipersensibile, crede alle favole, nulla di grave, diagnosticò un amico psicologo dopo aver chiacchierato con lei.
    È sana ma impressionabile. Tenetela lontana da quanto potrebbe turbarla: leggende e disegni inquietanti, persone strambe, sentenziò il medico di famiglia che l’aveva visitata dopo l’invenzione di Ferragosto. E dicendo ciò accennava con il capo ad Amelina, la tata, che la segnava con la croce e le infilava l’aglio e l’immaginetta di Gesù dal cuore ardente nella taschina del pigiama.
Veronica, peraltro, da quella sera aveva incominciato a smaniare nel sonno, a blaterare parole sconnesse, a scuotersi come se stesse vivendo esperienze tremende. La mattina, interrogata, raccontava che le ammazzavano il drago e lei lottava perché non succedesse.
Le ammazzavano il drago.
    Ma il drago non è un animale vero! ribatteva perplesso il padre.
    Il drago è come un cane, come un gatto, come una balena, ma più antico. Per timidezza se ne sta rincantucciato nel mare. Solamente i fuochi lo fanno uscire perché gli piacciono. E il Cavaliere Morte ne approfitta e lo uccide, rispondeva sicura Veronica.
    Il padre era piuttosto sgomento. Il cavaliere Morte scaturiva infatti pari pari dall’Apocalisse di Giovanni. Qualcuno doveva avergliene parlato e Veronica con la sua inventiva aveva fatto il resto. Incominciò a indagare. Le chiese se avesse sfogliato dei libri, quali e, senza aspettare un no o un sì di replica, con maldestra noncuranza le buttò là: Ti ha regalato qualcosa Amelina?
    La piccina lo aveva scrutato imbarazzata. Cosa doveva averle mai regalato Amelina, l’amata, anziana, grassoccia e simpatica Amelina che le faceva baciare i piedi piagati del Gesù crocifisso appeso sopra il lettino? che le recitava orazioni strampalate e divertenti all’ora della nanna? Scosse il caschetto castano senza proferire sillaba e il padre si rasserenò. Il drago era una creazione di Veronica, niente di più! Bisognava sdrammatizzare, ignorare, distrarla. Le portò un gattino, un trovatello macilento, leggero come una piuma: il primo (e Primo di nome) di una serie di cani e gatti, merli zoppi e ricci sopravvissuti con qualche acciacco alle traversate di carreggiata.
    Il drago sembrò andarsene, e a lui subentrarono schiere di derelitti in carne e ossa con accompagnamento di uggiolati, miagolii e trilli. La casa, il giardino, la rimessa si riempirono di scatole, recinti, cucce, gabbie senza la minima lagnanza da parte di nessuno.
    Purché non tornasse il drago. 
    Che invece tornava di notte, all’insaputa dei genitori, invadendo i sogni di Veronica, senza però causarle le ansie e i batticuori di una volta, data la netta, festosa vittoria sul Cavaliere Morte. Una sferzata di coda e l’assassino recidivo veniva sbalzato di sella, scagliato ai confini del cielo ed esiliato in un castello d’acciaio, mentre il cavallo, convinto a un pacifico dietrofront, era rispedito, con un’affettuosa pacca d’ala di drago sulle natiche color della pece, ai lucenti pascoli delle nubi, in una profusione di glicine e giallo croco. Con appagamento di Veronica che ridormiva il sonno del sasso.
    A sei anni, la notte di Ferragosto, come le era già successo – per davvero insomma, da sveglia – lei rivide il drago, il Cavaliere, il cavallo, la battaglia e rivisse il dolore della sconfitta, ma si tenne la notizia per sé. A sette anni fu la medesima cosa, identica a otto, a nove…, e avanti uguale: fantasmagorie di giochi pirotecnici nel cielo, un ribollio nel mare, clap clap di zoccoli, una spada traslucida sulla testa dalle squame policrome, la lotta, la morte del drago e la voglia di dormire per ritrovare le sequenze positive del drago vittorioso, tra squilli di trombe annuncianti il suo trionfo e la liberazione del cavallo.

    E questo perdura nel presente di Veronica, ormai ventiseienne, lo stesso caschetto castano, lo stesso piglio volitivo di quand’era bambina. Il fisico modellato con grazia naufraga in maglioni larghissimi e tute di jeans dalle tasche capaci. Cucite sulla stoffa in quantità incredibile, servono da mezzo di trasporto per cuccioli di qualsiasi specie. Così, fino a casa possono stare a loro agio e avere un po’ di ristoro dal suo amorevole corpo.
    Nulla era cambiato dall’infanzia. Tranne un fatto: ora lei salvava veramente il drago, ovvero gli esseri infelici del mondo animale, spendendo ogni sua energia nella clinica veterinaria dell’Università cittadina, dove si era diplomata a pieni voti e dove, giorno dopo giorno, il drago l’accompagnava da amico devoto, soffiandole nell’orecchio il consiglio giusto per aiutare quei figli di un dio minore. Là Veronica portava avanti una guerra santa, con passione inesauribile e il tocco taumaturgico della sua mano, o dell’ala del drago, come preferiva definirla se ripuliva una ferita, oppure riduceva una frattura causata dall’uomo, malvagio e ingrato con i suoi compagni di vita.
    Il drago era il Salvatore, di nome e di fatto: per Veronica che lo seguiva con fiducia illimitata, vista la vocazione di cui era stato messaggero, e per i protetti della giovane che lui sorvegliava bubbolando dalle narici enormi in disparati angoli della clinica. Ovunque ci fosse bisogno di lui, diceva Veronica ai colleghi che sapevano la storia del drago e pensavano scherzasse. Anzi, per celia, sull’architrave delle sale chirurgiche avevano appeso il seguente cartello:
Irene Navarra, Drago 1,
Grafica, 2022.
    CASA DI SALVATORE. Con entusiasmo di Veronica.
    E con soddisfazione di Salvatore.
    Il lavoro in clinica era duro e continuava a coinvolgerla in modo drammatico, malgrado sperasse nell’avverarsi delle parole dei maestri: Alla lunga ci si abitua! Parole, queste, improbabili o, per dire meglio, inattuabili. La zampa del drago, invero, la strattonava per un gomito quando, davanti ai soliti casi atroci, cercava di girare lo sguardo dall’altra parte.
    La richiamava all’ordine.
    E lei si adeguava.
    Di buon grado, se il cuore reggeva. 
    Talvolta però non ne poteva più, e allora scappava dalla città, verso le montagne che la circondavano con la loro cintura a ricami bianco-verdi. Si rifugiava nelle terre del Rio Fortunato, tale perché evitato dall’uomo. Troppo ripide le sponde, troppo impetuose le acque, niente bar e aziende agrituristiche raffazzonate alla bell’e meglio: soltanto natura e canto degli uccelli. Lande selvose indenni da cartacce, lattine, bottiglie di plastica, in cui vagabondava discorrendo tra sé e sé sommessamente per non disturbare le cince baccanone sugli alberi e i fringuelli in cerca di semi tra l’erba.
    Sussurrava al vento come le foglie e si muoveva con l’agilità felpata di un gatto selvatico.     La voce del bosco era la sua stessa voce.
    Là dimenticava brutture e afflizioni.

    Quel giorno, però, si discostò dall’acqua addentrandosi nel bosco per un confuso impulso.
Un confuso impulso.
    E il mattino di giugno pieno di promesse si adombrò mentre le franava addosso l’incubo    di ogni Ferragosto e il drago si inabissava in una palude limacciosa.
    Morendo indicava un punto rosso sangue pieno di dolore.

Il punto rosso sangue
è una creatura legata al palo,
lo sguardo spaurito,
il petto magro ansante per l’arsura.
Oltre il recinto decrepito,
davanti alla bicocca di lamiera e legno tarlato.


    Seconda parte

    Veronica liberò il cucciolo di cane dalle catene e si buttò nel bosco dirigendosi verso il corso d’acqua. Volava Veronica, incurante di sterpi e spine, le pupille dilatate fisse sul fardello che le penzolava tra le braccia.
    La fuga verso la salvezza ridarà forza al drago, salmodiava. Il drago può rinascere e parlare.
    E il drago parla davvero.
    In Veronica si dischiude una porta: ha cinque anni e guarda affascinata i fuochi d’artificio.
    La mano del padre l’ha lasciata, lei galleggia nell’aria. È pura luce. Entro breve lotterà contro il Cavaliere Morte in sella a un cavallo candido dai finimenti intessuti di stelle.
    I Sacri Testi avranno ragione.
    La Profezia, che le riecheggia dentro da tempo immemorabile, si compirà. Lo sa, ora. E va mormorandosela.

Aperto il settimo sigillo,
apparvero sette Angeli
con sette trombe
che si accinsero a suonare.
Il primo, il secondo, il terzo,
il quarto e il quinto Angelo
diedero fiato alle trombe
e ci fu grandine, fuoco, sangue.
Dal cielo cadde nei fiumi
e nel mare la stella Assenzio
e il mare e i fiumi furono amari.
Le locuste dalle code di scorpione
invasero la terra
salendo dal pozzo dell’abisso
per tormentare gli uomini
senza il segno di Dio sulla fronte.
Poi fu la volta del sesto Angelo.
Egli liberò i fratelli
sotto forma di cavalieri
dalle corazze fiammanti
in sella a cavalli dalle code di serpente,
e la terza parte degli uomini fu uccisa.

    Una litania di devozione per lei. Le dona vigore e l’aiuta a comprimere la rabbia in lucidi progetti di vendetta. Formule pronunciate all’unisono con la voce di Salvatore che, scrollando il dorso immane e stendendo le ali di smeraldo, riemerge incollerito dalla putredine del male.

    Veronica ritornava a casa con un altro derelitto. Sarebbe ridiventato un setter irlandese, se fosse riuscita a salvarlo.
    Ti chiamerò Salvo, gli disse aprendo il vano di carico della Uaz leopardata dalla ruggine e attrezzata con morbidi plaid. Povero tesoro, cosa ti hanno fatto! Guarda, Salvatore! È pelle e ossa, non riesce a reggere la testa da tanto è stremato. Maledetti umani! Potessi sbatterli all’inferno. Squartati, sbranati vorrei vederli! Altroché! Nessuna pietà per chi tortura gli animali. Occhio per occhio, dente per dente!
    Chi lega un cane alla catena, muoia di catena! aggiunse gesticolando all’aria, verso un grande olmo.
    Salvatore, accucciato sotto il grande olmo, era molto, molto torvo. La cosa appena scoperta lo faceva soffrire e meditava anche lui la vendetta. Sarebbe stata esemplare. Dovevano capirla gli umani la legge del più forte, o del più intelligente, oppure del più magico. La mettessero come volevano, un rimedio doveva pur esserci. Adesso però bisognava lasciare Veronica in pace. Concederle del tempo da dedicare al nuovo cencio striminzito. Ne era certo d’altronde, il cuore di Veronica poteva dare vita ai sogni, quelli che cambiano il mondo.
    Il loro destino era scritto nell’angolo del cielo riservato ai fratelli minori dell’uomo.
    Luogo che esisteva davvero.
    E lui lo sapeva perché arrivava da lì.

    Veronica versò alcune gocce d’acqua da una borraccia nella bocca della creatura spossata. Il cucciolo deglutì a fatica, la guardò e sorrise come i cani sanno fare, sollevando cioè le labbra verso le orecchie e allungando gli occhi a forma di mandorla. Lo baciò sul muso, lo depose in una cesta dai bordi alti su un suo vecchio maglione, gli rimboccò una coperta attorno per creargli un soffice giaciglio, bloccò il lettino di fortuna con altri contenitori perché non sballottasse troppo, andò alla guida e partì innestando la marcia con furia, in uno sfrigolare di metallo e di pneumatici sollecitati dall’abbrivio.
    Il viaggio di ritorno fu funestato da nuvole minacciose di propositi violenti. Un ritornello le martellava in testa. Non poteva permettere un simile martirio. Aveva l’obbligo di affrontare il male.
    La strada era un nastro plumbeo. L’unica realtà: il respiro affannoso di Salvo in aggiunta al suo, roco e lento. Doveva fermarsi. Si immise in una stradina secondaria e frenò sbandando. Le mani sul volante, la fronte sulle mani, le palpebre serrate, vedeva qualcosa.
    In se stessa questa volta.
    Non attraverso il drago.
    Un rotolo di pergamena antica, riallacciava fili interrotti di memorie che emergevano in messaggi terribili.

Il settimo Angelo diede fiato alla tromba
e si alzarono in cielo grandi voci.
Dicevano: il regno di questo mondo
è delle genti che si sono adirate.
È giunto il momento
di mandare in perdizione
chi manda in perdizione la terra.
Dal cielo aperto
verrà un guerriero
che si dirà giusto e fedele
e ucciderà la bestia
dalle sette teste e dalle dieci corna,
Poi chiamerà uccelli e lupi
a divorare le sue carni. 

    Dopo un tempo eterno Veronica iniziò a staccarsi dalla dimensione astratta in cui fioriva la rivalsa e trionfava la giustizia. Rialzò la testa, si toccò la fronte, gli occhi e, in un altalenare di sussulti percettivi, scivolò nel presente. Un rituale, questo, stracollaudato. All’inizio con paura, in seguito con agio. Senza che nessuno lo sapesse, pena le estenuanti sedute dallo psicologo amico o dal medico di famiglia, orientati a convincerla dell’assurdità della situazione con la boria di chi non sa, non vuol sapere e non capisce. Di conseguenza l’oro del silenzio aveva la meglio sull’argento della parola.
    E lei, Veronica, la strega-bambina, una volta divenuta donna aveva gongolato di ciò.
    Il silenzio è più forte di tutto, diceva agli alberi, al vento, agli amatissimi animali.
    Il silenzio contiene i suoni e le forme impossibili da descrivere. Li serberò per me, fingerò di non aver sentito e visto. Perché io posso raccontare alle pietre ma non a chi ha un buco al posto del cuore, recitava poi convinta tra sé e sé serrando le labbra per non emettere neanche una sillaba.
    Il motto preferito? L’anima tace sempre nelle mie parole. Se l’era inventato e giurato davanti allo specchio, incrociando le dita sulle labbra, dopo l’episodio del drago che aveva scatenato l’inchiesta su di lei. Se l’era rigiurato inoltre, di anno in anno, all’indomani del Ferragosto. Per non ricadere nella voglia di parlare con gli umani. I loro pregiudizi la irritavano. Era necessario sembrare “normali”. Purché non le togliessero le voci che le parlavano e le indicavano la direzione giusta.
    Quindi silenzi, quindi giuramenti a medi incrociati sugli indici, schiacciata contro lo specchio per non farsi udire, con il drago al fianco, affidabile garante della (tacitissima) parola data.
    Le voci e Salvatore erano i suoi ripari alle abiezioni del mondo. Da cui doveva strapparsi per ritornare alla Uaz, a Salvo e all’urgenza della corsa verso l’ambulatorio. All’oro del silenzio controllato.
    Denso di furore, tuttavia.

    Nei giorni seguenti fu occupatissima a curare Salvo che rifioriva e le sorrideva fiducioso, tentando, senza riuscirci, di tirare su le sue quattr’ossa per zampettarle incontro al rientro dal lavoro e dai consueti giri di salvataggio. A breve l’avrebbe fatto perché mangiava con appetito sostanziosi pezzetti di carne e lei, quando lo imboccava, appoggiava il dito sulla sua tenerissima lingua rosa di cucciolo, per farglielo ciucciare, in consolazione dei precoci patimenti.
    Però, mentre accudiva Salvo, lavorava in clinica, mentre sbrigava qualsiasi tipo di faccenda insomma, rifletteva con intensità. Se si interrogava sul da farsi, vedeva il sentiero dal Rio Fortunato al bosco come un nastro di dolore al cui capo c’era un altro essere infelice, ormai esausto. Si odiava perché avrebbe dovuto precipitarsi a liberarelo. Subito avrebbe dovuto farlo. Ma si voltava dall’altra parte sentendosi una vigliacca.
    E Salvatore non aveva il coraggio di strattonarla.
    Salvatore aspettava il suo turno.

    Domenica di fine luglio.
    Veronica andrà di nuovo là.
    L’antica pergamena le si sta srotolando dentro e la guida. Deve stanare e uccidere la bestia dalle sette teste e dalle dieci corna. Deciderà sul posto cosa fare, dopo aver guardato negli occhi la bestia‑aguzzina di Salvo.
    Con sommo disprezzo.
    Dopo averla guardata, lei e il drago la colpiranno.
    Com’è giusto.
    Ciò che avrebbe trovato, lo presentiva al millimetro. L’esperienza gliel’aveva insegnato: molti uomini seviziano i propri fratelli animali per il piacere di farlo. Non c’è un perché. È così e basta.
    Vuoi mettere il gusto di massacrare in modo calcolato una creatura in perfetta letizia e consonanza con le leggi naturali? Vuoi mettere la gioia dell’obbligare all’immobilità chi vive di corse, di balzi, tuffi, scarti, frenate e capriole? Del dare un metro di corda in cambio dell’amore profuso generosamente?
    Amore, sì! I nostri fratelli animali sanno cos’è l’Amore vero. La dedizione assoluta. Ciò di cui molti uomini non saranno mai capaci! rifletteva Veronica percorrendo il sentiero noto.
In prossimità del luogo si fece accorta. Temeva di trovarsi faccia a faccia con la bestia senza aver avuto il modo di studiarne di nascosto le fattezze, i gesti, di capire di che pasta fosse fatta. Per la prima volta da che frequentava il territorio del Rio Fortunato non sentiva il chiacchiericcio degli uccelli e il brusire degli alberi.
    Persino il fiume frenava l’impeto.

    L’incontro fu sconvolgente.
    La vide arrivando di soppiatto tra i cespugli fitti intorno alla bicocca.
    Era una donna bella e giovane. Una bestia-donna dai capelli ramati vestita di garze porporine. Una zingara dai numerosi gioielli tintinnanti al collo, ai polsi, alle caviglie. Si dimenava seguendo una musica interiore che le corrompeva il viso. I piedi nudi battevano il terreno. Le braccia volteggiavano come vele impazzite. In disparte, un meticcio grigio era riverso a terra, quasi strozzato dalla catena corta che lo teneva legato a un palo.
    Sembrava morto.
    E lei danzava ridendo, contro un fondale di lamiere ruggini e cumuli di spazzatura.
    Scoprirla donna fu uno schiaffo per Veronica. Non l’aveva previsto. Nelle sue fantasie c’erano stati e c’erano i malvagi, ma sempre maschi. Rudi, crudeli, sadici e maschi. Le donne no. Non torturavano gli inermi. Le donne portavano dentro il grembo i figli, li mettevano al mondo assistendosi a vicenda, soccorrevano gli animali femmine nel parto. Le donne sapevano amare con abnegazione. Fin dall’origine dei tempi. Gli uomini, invece, fanno le guerre, uccidono, stuprano, tormentano. Le donne no. Le donne subiscono.
    Eppure, davanti a lei, la bestia-donna danzava, indifferente a chi stava morendo.
    A un tratto l’esserino mosse la testa verso un piatto di latta contenente dell’acqua torbida.     Non l’aveva alla portata, non avrebbe mai potuto leccarne nemmeno una goccia, ma la bestia con un calcio la disperse e il silenzio annotò un rumore aggiunto alla sua risata: il frrr del liquido che alimentava l’aria di vapore. La risata sgangherata e il frrr con la sua eco contrappuntarono la riluttanza della natura.
    Al doppio rumore si aggiunse il battito del cuore di Veronica che si slacciò da lei crescendo nel sottobosco, nello spiazzo ingombro di rifiuti davanti al posto malaugurato.
    Creò un strepito di battaglia, tetro, tumultuante.
    Scostare con le mani l’intrico di rovi impenetrabili ferendosi senza badarci, anestetizzata dalla collera, irrompere sulla lurida radura e caricare impavida, incarnata nella Clorinda del mito – lancia in resta, corazza scintillante – fu simultaneo e luttuoso.

    Veronica è un grumo d’ira, è energia pronta a conflagrare, una macchina micidiale armata per colpire la bestia che la guarda piombarle addosso con occhi dilatati ma privi di timore, come se sapesse.
    La guarda come se sapesse.
    D’improvviso, nel cristallo del cielo avviene qualcosa di devastante e stupendo che vince i sensi di Veronica, trattenendone l’assalto.
    Le particelle d’acqua bevono i raggi luminosi del giorno pieno, li filtrano e riverberano all’istante con le scie opalescenti di un pianto cosmico. Lo stesso del mare per i fuochi pirotecnici di Ferragosto. Non ci sono i fiori giganteschi, le torce colossali, le corone di faville contro la volta: immenso scenario alla lotta esiziale per il drago. Quanto sta vivendo ha il sentore buono del sogno di ogni notte perché le lucciole di luce sembrano aggiungere al sole un altro sole, in presagio propizio.
    Veronica contempla le stille diamantate. Poi abbassa gli occhi. La bestia appare circonfusa da cateratte di grafite che ribollono artigliandola con dita rapaci, travolgendone la chioma fulva, la bocca sconcia. Per lei nascono e montano nubi burrascose, vortici sgroppano in impennate, crisalidi astrali rigurgitano magma incandescente.
    Veronica intuisce.
 
Irene Navarra, Drago 2,
Grafica 2022.
    È il momento.
    La condanna con sguardo d’ortica e di fiele.
    Infine
    lentissima
    si scosta lasciando che arrivi il drago.

    E mentre Veronica raccoglieva la creatura esanime,
il drago si avventava sulla preda
dai monili d’oro e perle.


    Poi gli uccelli e i lupi fecero il resto.