Le mie critiche d'Arte.


La scultura di Pierpaolo Consigli tra realtà e mito.

Esortandovi caldamente a visitare il Sito dello scultore Pierpaolo Consigli (in arte Pico48), vi propongo la Critica (anche lirica) che gli avevo dedicato nell'Agosto del 2020.



Pico48, Autoritratto con Sacher, Terracotta patinata colorata acrilico.
Dimensioni: cm. 55 x 35 x 60.

“Se guardi negli occhi il tuo cane, come puoi ancora dubitare che non abbia un’anima?”, Victor Hugo.
“È così che ho voluto esprimere l’amore verso il mio cane Sacher”, Pico48.

                                  
Pico48, Opi - dea bendata, Terracotta patinata naturale su Vetro.
Dimensioni: cm. 30 x 24 x 51.

 
    È da una zona d’ombra invasa dal silenzio che talvolta scoccano faville prodigiose. Di contrasto al morbido fluire del grigio, dopo un brillio di luce, s’addensano, formando la sostanza che sarà. Culla di un’anima che chiede di volare. E sa il potere del sussurro a chi ha mente e mani esperte di segreti. Pierpaolo Consigli possiede ingenito il talento dell’interpretare la materia per estrarne l’essenza. In modo sottile. Senza rivelarla del tutto. Lasciando quei margini sospesi che si fanno mediatori di fascino. Così, dall’assunzione delle leggende antiche come fonti ispiratrici scaturisce che le sue dee hanno palpebre solo leggermente dischiuse. Perché, se le aprissero, ci accecherebbero con il loro bagliore. E ciò l’ho capito mentre le rimiravo e cercavo di sondare quel quid particolare che mi rapiva. Fino all’intuizione estrema e alla spontanea scelta di elevare a piccolo canone poetico il mio speciale sentirle. Di conseguenza:

Chiudere gli occhi davanti alle tue dee.
E sullo schermo interno delle palpebre
far scorrere le loro storie.
Miti ancestrali nascosti nelle pieghe dei millenni.
Reliquie palpitanti
per te che ne intuisci il suono
e lo palesi
come al momento della nascita
nel gesto da demiurgo del dare consistenza
a sobrie creature ancora fioche.

    Un metodo infallibile, questo, che mi permette di intendere anche le creazioni di Pierpaolo a soggetto contemporaneo. In esse lo sguardo, apertamente franco, è senz’altro di primo rilievo. Porta infatti il carattere del modello. Quanto sta dietro però, ovvero il narrato intimo del rapporto artista / opera, rimane il nucleo dell’attrazione. Per cui di nuovo a occhi chiusi rivivo i gesti di affettuosa reciprocità tra cane e padrone plasmati in memoria perenne del compagno di avventure esistenziali. Indizi d’amore scambievole che rimarranno ancorati al momento. E con folgorante lucidità ritrovo il piglio deciso negli occhi del figlio, penetranti al punto da scavare dentro l’anima dell’osservatore. Pierpaolo, dunque, racconta le sue visioni mentre ne induce la comprensione con agganci al subliminale Oltre da cui le visioni stesse arrivano.

Irene Navarra, 29 agosto 2020



Il Vescovo di Pierpaolo Consigli: Diorama e Straniamento
(con Dante Alighieri).


Pierpaolo Consigli, Il Vescovo, Marmo bianco di Carrara e Vetro colorato stratificato.
Dimensioni cm. 26,5  x 35 x 68.

    Ci vorrebbe una stanza museale adibita a Diorama con attorno, proiettate alle pareti, le forme del Vescovo di Pierpaolo Consigli, in tutte le prospettive e su molteplici sfondi d’ambiente. E ciò per avere, all’impronta, la visione molteplice e completa di questo personaggio così ben interpretato dal talento scultorio dell'artista padovano.
   Essere immersi nel fulcro ispirativo dell’opera che, programmaticamente, nulla ha di ieratico, farsi naufraghi nella sua anima contorta, è la via giusta per capire la capacità empatica dell'artefice. Straniati, quindi, dallo spettacolo turbativo di quel volto, dal carosello delle sue fattezze, si potrà trovare la chiave d’accesso a molte "astrusità" comportamentali di una classe sociale piuttosto invasiva del nostro quotidiano.

    Per tale intuizione mi sono creata uno spazio da metaverso (il mio speciale Diorama) – come faccio sempre, quando l'entusiasmo prevale - in cui sistemarmi generando, con una sorta di acume psicosensoriale, le immagini stesse e le loro conseguenze emozionali.
    Un incubo, il risultato.
    Il sorriso agro con gli angoli delle labbra all’ingiù per dimostrare il disprezzo più repulsivo, gli occhi serrati a non vedere, le narici – quasi froge animalesche – dilatate nella ricerca olfattiva per stornare un semplice avvicinamento interlocutorio, un pericolo supposto o un’eventuale aggressione, tutto, proprio tutto si fa simbolico. Racconta, infatti, la determinazione, collaudata da secoli di imperio, a evitare, ignorare, cancellare. Perché il risultato può non essere produttivo. A fini… istituzionali, religiosi persino. O personali.
    Una formazione d’indirizzo, questa, che lo scultore sa rappresentare grazie a una naturale diffidenza anticlericale dagli illustri antecedenti nel percorso della tradizione artistica nostrana. Tradizione che si è sempre proposta di denunciare lo stereotipo di un eccesso di rispetto, spesso non validato, verso la "categoria".
    Il Vescovo di Pierpaolo Consigli ne è la precisa rappresentazione. Ironia e Satira vi si mescolano con una spontaneità che ha dell'incredibile, rendendolo emblema di sindrome egotica da prevaricazione. Ben esplicitata, peraltro, nella formula affiorante sulle labbra distorte, e di cui si coglie il sibilo sottile: Io sono il potere conclamato da millenni. Per decreto divino. Sindrome sedimentatasi ormai, dopo secoli di ammaestramento, nella malattia cronica di cui soffrono i ministri del clero.
    Dante Alighieri (immagino con un pizzico di divertimento) lo renderebbe un'icona del suo XXVII canto del Paradiso, dove ai versi. 22 - 26 fa esclamare a San Pietro, riferendosi però al papa:

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio

fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza;

    Un’invettiva, questa, davvero efficace per la triplice iterazione dei termini "il luogo mio" che vengono rimbalzati nell'Empireo affocandolo di sdegno.
    Tre, dico. Tre. Il numero mistico della perfezione nella triade sacra: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tre per esorcizzare la maledizione di chi nella Chiesa traligna, dimenticando l'alto ufficio cui è preposto, calpestando il Pan degli Angeli, ovvero la delicata questione teologica affidatagli.
    Rivolta ai Vicari di Cristo. Certo.
    E priva di scadenza.
    Perché la corruzione ha espansione spazio-temporale infinita all'uomo e alle sue cose.
    Rivolta, di conseguenza, pure ai Vescovi in quanto ministri della Chiesa e detentori di potere. Essi, infatti, si fanno titolari della legittimazione a un'invincibile, plenipotenziaria autorità la cui metafora si evince dalla smorfia a occhi chiusi della figura qui commentata.
    Una legittimazione del tutto soggettiva e unilaterale, avverte l'artista mediante i tratti fisionomici, per certi versi caricaturali, sbozzati dal suo scalpello irriverente.
    Se, poi, ci soffermiamo sulla mitra di vetro rosso ruggine, la cui fattura ha richiesto un grande impegno di studio progettuale e d'ingegno artigiano, notiamo che si appoggia sulla testa del Vescovo in modo naturale, affermando un privilegio collaudato - diremmo - da numerose investiture e autoinvestiture nel corso del tempo. Spesso non meritate né meritorie.
    Usucapione? Può darsi.
    Narcisismo esasperato? Probabile.
    Un diritto conclamato sempre, e riconosciuto, ma mai sequenziato nelle sue caratteristiche di DNA reso anomalo da storture ripetute.
    Questo ci comunica lo scultore con il suo Vescovo, rendendolo un Manifesto in sé del suo dissenso. Fatto di marmo - simbolo di solida durata - e Vetro che è materiale talmente fragile da rischiare la rottura anche per un soffio di brezza primaverile, è prova materica di contenuti ideologici.
    L’artista, pertanto, diventa il banditore di una realtà controversa e, purtroppo, molto comune. Da eradicare nei suoi aspetti devianti, così come recita il messaggio subliminale e liberatorio sotteso all'opera.
    Lode, dunque, alla Verità d'Autore.

Irene Navarra, Artemisia Eventi Arte, Pierpaolo Consigli, 30 Aprile - 1 Maggio 2023






La CAGE Art di Eugenio Bernes

Πάντα ῥεῖ, CAGE, 2013

Eugenio Bernes, Πάντα ῥεῖ, CAGE.
- 2013 -
Tutto scorre. Certo. Lo dice lo PseudoEraclito. Il Divenire la vince sempre sull’Essere. Almeno nella nostra dimensione mortale e al di là del fatto improbabile che, se un Λόγος ribelle, sotteso ai fenomeni effimeri, portasse la quiete in ogni punto, uguale a se stesso inalterabile indomabile, ci sarebbe una stasi per le forze che fagocitano materia su materia e la trasformano in altro da sé. In moto perpetuo. E ciò riciclando il substrato complesso in cui le varianti si assestano come tappe di sviluppo, dopo il primo impulso. Impulso d’artista naturalmente. Oppure divino. Estro generativo alla fin fine, dagli esiti sempre esteticamente straordinari perché la rielaborazione gestita dall’Intelligenza sovrana, che informa accordando, possiede una sapienza intrinseca assoluta.
Viene da chiedersi quali ne siano le caratteristiche. Solo intensive? Soltanto extensive? Entrambe assieme?
Se vale l’ultimo rovello, qui si parla di Dio.
Allora: la mano di questo Dio informatico sparge manciate di notizie, chi si apre al contatto raccoglie le più palesi, le analizza e ne rigetta alcune sulla scacchiera da sistemare. Per avviare il processo. Che diventa autonomo quando l'autore antropomorfo chiude la sua volontà e lascia il Libero Arbitrio al fermento intimo di ogni cosa in evoluzione germinativa di rimandi subliminali. Come il volto di giovane donna dell’opera in esame nato dalla mano protesa in alto a sinistra e predisposta a spargere i suoi trucchi sulla campitura di lavoro. 
La mano di Dio, dunque.
Tre sono, allora, le fasce dell’opera, interagenti l’una con l’altra in motivi sempre più complessi. Dall’assoluto dell’Alto, al comporsi del centro in occhi delicati e volto e collo morbidi da modella rinascimentale, al gioco quasi optical dell’angolo in basso a destra, dove gli sprazzi di sostanza colorata stanno ancora formando una progenie mutante. Mentre captano segnali di stili già vissuti, riformulandoli in calembour beffardo. Guai all’artista, infatti, che si esaurisca in una scuola o nella ripetizione di tecniche e moduli, sembra ammonire il Demiurgo Metaumano/Gran Burattinaio del procedimento in fieri. Il nostro hic et nunc deve affermarsi come preludio a una trascendenza in grado di percorrere i reticoli della comune gabbia digitale travalicandone le barriere.
Un po’ nella scia del Color Field newyorkese degli anni ’40 –‘50, soprattutto per il concetto del superamento dello spazio pittorico mediante un tendere geometrico/cromatico all’invasione delle zone cellulari. È la stessa forza di gravità a scagliare sul supporto grafico macchie liquide rapprese o colanti. Sono i tratti inconfondibili di Clyfford Still, Mark Rothko, Barnett Newman, Hans Hofmann, Gene Davis, Ronnie Landfield, Frank Stella e, soprattutto, di Sam Francis a portare testimonianza di superfici di intervento vaste, alias luoghi pittorici adatti a registrare i gesti d’artista iniziali come inscindibili dall’azione che li ha generati.
Una scorta buona, questa, che rende ragione del citazionismo multimediale in cui la C.A.G.E Art di Eugenio Bernes, giovane musicologo, musicista e informatico, si muove con agio.
E non c’è Leonardo da Vinci o Georges Braque che tenga: il fattore X è insito negli elementi. Il cacciatore più astuto (o più sensibile) lo coglie e del modo fa sistema.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Eugenio Bernes /
12 maggio 2013


Riflessioni durante un tramonto
[Disegno realizzato con Autodesk Sketchbook for Android, elaborazione tramite CAGE System for Android, post-elaborazione tramite Autodesk PixlrExpress for Android e Adobe Photoshop CS4]

Eugenio Bernes, Riflessioni durante un tramonto, CAGE.
- 2013 -
Una fruttuosa in/evoluzione, questa dell'ultimo CAGE di Eugenio Bernes. Una sorta di voluto back to the future se si considera il ritorno al passato nel figurativismo che sottende all'opera e, in controcanto, il progresso verso una maggior personalizzazione. Ovvero: per la fase di partenza accantono il medium puramente tecnologico, lo confermo per l'amalgama dei momenti successivi, tuffandomi però con scienza e coscienza nelle "buone cose" antiche - di sicura matrice irongozzaniana - e recuperando, tramite le emozioni, la realtà effettuale. Uno straniamento con regresso, quindi, che dà i risultati ottimali della contenuta malinconia espressiva del soggetto. Ciò che colpisce di prim'acchito è la struttura generale del ritratto fatta delle linee morbide del busto da cui sboccia il volto di giovane donna assorta in visioni interiori che non ci è dato sapere. La geografia fisica risultante è articolata di pochi segni grafici alieni al gioco perverso del CAGE.
Nessun Dio informatico a porre limiti. 
Resta l'idea che abita l'autore, valgono la sua ispirazione e la forza del tratto graffito sulla carta. Tangibilmente graffito sulla carta. E poi avventurosamente elaborato con criteri di salvaguardia di ogni sembianza. Così, l'ovale inclinato del volto ripreso nel doppio dello scollo, l'intersecarsi lievemente a V delle braccia, la diagonale obliqua delle spalle, i capelli ricadenti a unire con le loro onde fluide mente e cuore, sono tutti dettagli di grande naturalezza. Scaturiti nella luce di un qualsiasi tramonto forse vissuto o, forse, solo immaginato. La situazione concreta non è rilevante. Conta la mano che si è mossa sotto l'estro di una folgorazione, conta quell'accennato sorriso enigmatico da Monna Lisa un po' estenuata che la potente fantasia enuclea, conta il balzo percettivo che si riappropria dell'originario suo ruolo demiurgico e infonde impulso alla creazione. 
La resa finale è un'altra storia. Racconta calibrature cromatiche, luminescenze tonali, ricerca di equilibrio iconico. Il tutto secondo formule di perfezionismo formale irrinunciabili per l'artista.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Eugenio Bernes /
21 settembre 2013


KAMMERMUSIK No.6, CAGE, 2013.

Eugenio Bernes, KAMMERMUSIK No. 6, CAGE.
- 2013 -
È il tempo il tema di quest’opera. Non la musica. O meglio: apparentemente vi si svincola un motivo che è quello della composizione n° 6 di Paul Hindemith per viola d’amore – lo dice il titolo -, in verità però è la memoria pura di onde sonore eterne a scorrerla. Generate, queste ultime, dal gesto, e convergenti in risucchio metafisico verso il gorgo blu Klein all’apice del disegno cellulare. La materia si sta disciogliendo, vi permangono però ancora i simboli dell’attimo: gli occhi chiusi nell’intensità della prova, il cavigliere con i suoi piroli ben evidenti, le serpentine delle fiamme, il grafismo sottile dell’archetto. Niente di più. La C.A.G.E. Art ha cancellato il resto rendendo tutt’uno il fatto spirituale e il dato fisiologico. L’intima relazione dell’esecutrice con il Tutto si sta evolvendo, il passo successivo sarà la disintegrazione fluida di ogni tratto e l’espansione (o contrazione?) trascendente che restituisce qualsiasi concretezza alla coscienza universale. Per quanto la scritta in chiaro Sezessionstil tenti un argine a tale trasformazione, ponendo dall’esterno del fenomeno ormai iniziato ironici limiti a quanto è inevitabile.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Eugenio Bernes /11 maggio 2013





Nemesis, ovvero la: una CAGE Art Evoluzione ricca di fermenti.

Eugenio Bernes, Nemesis, ovvero la, CAGE.
- 2013 -

Siamo nella fase ormai matura della CAGE Art di Eugenio Bernes. Sotto i giochi cellulari c'è la penna grafica che segna la carta virtuale di un'opera nata come contestazione.
Il suono è la base del disegno. Un suono che ti squassa dentro e conflagra. Un grido che deve terrorizzare chi si oppone prima dell'urto micidiale con inevitabile disintegrazione di qualsiasi materia. Un suono immane e inimmaginabile.
Così urlò Medea prima di uccidere i figli, consacrandosi agli dei della Notte.
Nel dipinto le storture del vivere vengono fagocitate da una bocca dilatata a dismisura, spalancata fino a diventare l'emblema del vuoto di razionalità in cui rotolerai consenziente. Il sangue si fa nastro che serpeggia entrando/uscendo da cavità tenebrose. L'azzurro non è un resto di cielo ma brandelli di carne putrefatta, il volto, pallido di furore, si contrae e allunga in dimensioni infinite.
Nulla può resistere a questa spinta esplosiva.
La scelta del soggetto, serialmente reso, segue la logica dell'amplificazione. Monta la rabbia nel cervello, preme sulle pareti del cranio come una corrosiva schiuma rossa, deflagra e non si disperde. Perché il Golem si è liberato e macina tutto nella sua corsa atroce.
Che gli automi cellulari lo assecondino, dunque. Nel moto perpetuo di cui si fanno perenni messaggeri. Se la mano dell'artista, pur pacata, deciderà di non fermarli affinché plasmino concretamente Nemesi e la sua legge assassina.
Amen.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte / Eugenio Bernes /
1 dicembre 2013


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Il concetto del colore nelle illustrazioni di Anna Mattiuzzo



Tra meraviglia e allegoria si snoda il racconto fantastico di Anna Mattiuzzo Bianca vestito di neve (L'orto della cultura Editore, 2013). Il libro, contesto di autentica magia, presenta un epilogo intriso di buona moralità a sfondo sociale. Vivere integrati in un sistema desentimentalizzato o seguire il miraggio dell'amore? suggerisce il dilemma alla base della storia. Sobria di necessità, poiché dedicata a un pubblico infantile, ma assieme complessa nei suoi sensi connotati, e da mediarsi di conseguenza attraverso il filtro cosciente dell'adulto, capace di interpretarne gli aspetti subliminali per incanalarli alla corretta fruizione.
Di gelo è la sostanza di Bianca. Candidi gli occhi, il viso, gli abiti, il cuore portato a passeggio come un palloncino inerte.Bianca procede nel suo mondo scialbo, priva di turbamento. Lei non sa entrare in empatia con gli altri esseri. Per la sua natura algida accetta i ritmi monotoni del vivere. Finché sulla scena non irrompe l'imprevisto: le richieste di alcune creature del bosco incontrate per caso. Stanno preparando una festa in onore dell'inverno. Che male le potrà mai capitare se raccoglierà ghiande, nocciole, legnetti, mele per lo scoiattolo, la volpe, il lupo, il topolino? Nessun male, si dice Bianca, introducendo una varianza nella misura sempre uguale dei suoi giorni. Scopre così un universo ricco di attese e speranze. Da qui la scintilla che appicca un fuoco via via più fervido. Ecco il colore. Prima i guanti, le scarpe, le vesti, poi le guance, il volto intero e tutto il corpo assumono contorni, vibrano di rosse sfumature. Bianca inizia a percepire un esile grumo che le palpita nel petto con intensi battiti. Avverte il trepidante calore della commozione. La nuova conoscenza cancella il passato. Ora contano i balli, i canti, il gioioso rumore, la tenerezza reciproca. È una metamorfosi radicale, quella della bimba. Una trasformazione resa attiva in virtù dell'aiuto prestato generosamente e del lavoro condiviso. La gratuità ne è la chiave. Nella seconda parte della favola si dispiega, pertanto, una scala di valori diversi. In controcanto alla dimensione ghiacciata - arida dunque - che è stata l'habitat materiale ed emotivo della piccola Bianca, divampa a poco a poco la fiamma dell'adesione a un progetto comune. Allora, mentre le cose si accendono di brillii nella festa per l'arrivo dell'inverno, il gelo del cuore si sfa completamente non solo in Bianca, ma anche in noi lettori, rapiti ormai dall'incanto di questo delizioso quaderno in versi e immagini. E desiderosi di affidarci ancora alla sua genuina poesia.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte /
Anna Mattiuzzo / 6 febbraio 2015.
La critica è stata pubblicata nella Sezione Cultura di Voce Isontina del 21 marzo 2015.


E Qui.


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L'opera ceramica di Vilma Canton Lautieri.



Vilma Canton Lautieri, Magnum Chaos, 2004.

È l’etimologia figurativa che attrae nell’opera ceramica di Vilma Canton Lautieri. Quel suo penetrare nelle pieghe dell’essere per darcene le formule misteriose. Semirefrattario e gres naturale, la sostanza; spesso raku, la tecnica; smalto metallizzato, la patina cromatica. Questa l’esteriorità. Espressionismo onirico, com’è nelle sue corde, lo stilema artistico. Di un’essenzialità calibrata che a volte rasenta il minimalismo primitivo, se non fosse per l’indulgere in chiaroscuri e squarci della materia attraverso cui filtra la luce (Fra cielo e terra, La Sacra famiglia, L’albero della vita). E, se consideriamo il gioco peculiare di pieno/vuoto, la dice lunga lo spazialismo emblematico di cui si nutre la sua pittura, perché lei è pittrice in primo luogo. Nelle sue creazioni plasmate però, maggiormente che nei dipinti, la sostanza sospende il diffondersi del chiarore, ne spezza la purezza ma racconta anche l’irrompere di quanto porta ai sensi e al movimento. A comporre una sorgente di armonie e disarmonie, nutrita, quasi, del suo stesso affannarsi emergendo dall’oscurità della tenebra. Così nel Magnum Chaos che ripercorre la potente fantasia dei disegni di Lorenzo Lotto, reso preziosa tarsia per l’iconostasi del coro di Santa Maria Maggiore in Bergamo da Giovan Francesco Capoferri. Là viviamo il momento prima di qualsiasi creazione. Quando tutto inizia, aggrovigliato disordine, e si fa. Mentre i piedi, le mani si dispongono analogicamente simili a partizioni vegetali elementari. E, se alzate l’opera di Vilma Canton Lautieri alta sulla testa - spoglia fragrante di conquista - e la guardate in prospettiva eccelsa, vi apparirà come una mappa arborea. Le mani saranno fronde, il sole chioma, i piedi una ceppaia robustamente accampata nel solido. Allora, già nel Chaos primigenio, vi è in nuce una sorta di assetto, compresso però in vaga unità sovrintesa dall’Occhio sapiente, che si allarga in tramite di conoscenza. Con l’ausilio del Mago interprete e della Civetta saggia, magicamente tutt’uno tramite il medium attivo dell’artefice, capace di farcene leggere il senso con gesti dalla ritualità arcana: capovolgerne la testa ricollocandola nei suoi stalli. In sequenza seriale. Fino a creare lo straniamento adatto a percorrere le regioni comprese Fra cielo e terra; fino a gravitare nel cuore pulsante de La sacra famiglia che abbraccia anche il cane compagno d’Amore quotidiano; fino ad affiorare dal mare conducendo un pullulante Marumano fatto di entità per metà blu verdi/oceanine e per metà bianco grigio ocra/terrestri ripulite dalle macchie scure del profondo, ora erte, ora flesse, ora appoggiate, ora nitide per monocromatismi, e svettanti, svincolate quindi dai fili reggitori che rendono ogni individuo burattino, o meglio: Burattino con maschera. Considerata la necessità di esibire il proprio ambiguo doppio - naturalmente adatto e conforme alle cavità impreviste dell’esistenza -, quando appena si respiri nell’incontro con gli altri.. Un continuum complicato, il mondo dell’artista. Ricco di geometrie: quelle rigorose, ineluttabili; e quelle tragicamente spezzate. Parlo delle linee d’orizzonte infinito, delle linee frante dei crash esistenziali, del tondo come controcanto. Una cometa che vorresti acchiappare per la coda e non puoi perché la sua corsa ti precede sempre, lasciandoti tra le dita solo un po’ della sua luce. Sufficiente a farti intraprendere il viaggio di riconoscimento tra le mutevoli apparenze della Commedia della vita.

Irene Navarra, Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte /
Vilma Canton Lautieri / 22 agosto 2012


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Le tele aggomitolate di Loris Agosto.

Dal Caos primordiale l’ordine / Intro-ire per Intus-legere.



Andare dentro per leggere in profondità. Dall’esterno all’interno, pertanto. Un viaggio al cuore dell’opera scivolando lungo grovigli intricati di dripping e versature. In consensi / dissensi di tinte che hanno la vastità delle infinite cose e si intersecano, si sovrappongono, sfuggono, riemergono configurando campiture strane. Il caos. Congerie di cromie in discontinuità fluida, all’apparenza senza senso. Richiamanti flash improvvisi di visioni a macchie: scure come corpi di insetti dalle sottili zampe, neonate sul verde brillante di prati assurdi, contro un cielo rovesciato che traspare in sprazzi / resti di naufragi celesti. Asimmetrie complicate. Eppure qualcosa vibra e si va facendo sotto quelle matasse, imprevedibili ma non casuali. Là, nelle gamme articolate di colori sta il mistero della creazione. Sulle tele aggomitolate, lavorate scientemente dall’artista per suggerire sinuosità materiche, la confusione regna sovrana. Ma fermenta anche, allentandosi e riassestandosi nella calma di nuove strutture elementari. E ciò mentre intride strati e s’insinua “in una parte più e meno altrove” (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, I , v. 2) mentre si separa nelle sue componenti specializzandosi, plasmando le vesti del fenomenico. Da cogliere a guizzi virtuali di percezione. Senza chiedersi ragioni. Così trasformata dilaga simile alla luce del creatore. Si assesta in gerarchie. Questo sistemarsi progressivo, che possiamo solo immaginare, ha una voce: stride a blocchi consenzienti, con il clic di cerniere che si saldano. E tacciono poi, finalmente. Quando dal Caos primordiale nasce l’ordine. Un ordine d’artista. Perché si fa. Nel concetto astratto che esce dalle mani. Non ci sono immagini, centri, periferie ma distese di filamenti che si fermano al bordo della tela aggomitolata, morendo sulle ultime gibbosità e non travalicandone i bordi. Entro i quali, tra i viluppi di colore, Loris Agosto imprigiona l’agglutinarsi delle forme, il loro movimento strutturale. La drammaticità del dipinto sta dunque a livello della superficie, la cui tensione si allenta all’unisono con lo sprofondare della mente sotto la “crosta” a geroglifici. In modo tale che lo spettatore è chiamato ad aggredire e invadere lo spazio del quadro. E non attraverso un varco metafisico, una fessura sull’inconscio simile a quella che postulava Pollock negli anni ’50. Non c’è alcuna volontà di riprodurre illusionisticamente la realtà. In tale modo la rappresentazione può essere, per la sua stessa natura, testimonianza esistenziale dell’artefice.

Irene Navarra / Quaderni di critica / Artemisia Eventi Arte /
Loris Agosto / 19 ottobre 2011

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