mercoledì 17 maggio 2017

Critica sociale / La macchina del fango (con Dante Alighieri).


Esaltare se stessi calunniando gli altri.
Eh, sì! Bel modo di spingersi, corna in resta, contro chi ti turba perché:
evidentemente fornito di competenze specifiche,
capace di esprimerle in modo corretto, elegante,
dedito persino al tacere piuttosto di esporsi al ridicolo del parlare comunque.
Fonte di conoscenza, quindi.
Creatore di Bellezza, insomma.
La Nuda Veritas dovrebbe essere destinata a vincere.
Invece:
la macchina perversa e sempre in funzione del fango trasforma i fiori in guano, i pensieri puri in materiale putrescente, i gesti gentili in veleni.
Guardiamoci in giro e ce ne accorgeremo.
Basta un'occhiata veloce e ci sei. Nel sobbollente mare di sterco, intendo, che soffoca la nostra società malata.
Per i Rimedi ricorro a Dante, l'amato Padre che mi salva dal naufragio e mi ritempra gli umori in virtù della sua vicenda personale, irta di difficoltà all'apparenza insormontabili ma affrontate sempre con intrepida determinazione.
Il tempo contemporaneo ha bisogno di lui.
Noi, piccoli esseri, abbiamo bisogno di trarre forza dal suo esempio per continuare a vivere come Dignità insegna, scansando chi ci intralcia volutamente.
Amen.

Jan Van der Straet, Maestro Adamo e Sinone - Inferno - Canto XXX, Illustrazione, 1587.
- Fonte: Wikipedia -

Nella decima Malabolgia del Cerchio VIII del suo Inferno, Dante Alighieri colloca i falsatori di metalli, persone, monete e parole. Questi ultimi sono vessati da una febbre ardente che ne stravolge i sensi. In vita storpiarono il vero con insinuazioni mendaci, ora è quella stessa smania a perseguitarli in carnale tortura eterna.
Egli li rappresenta per antonomasia nella persona di Sinone Greco, colui cioè che, fingendosi abbandonato dai compagni, convinse Priamo a introdurre in Troia il cavallo di legno, e ne favorì la distruzione. Il disprezzo, lo sdegno del Sommo Poeta per tali peccatori si esprimono attraverso l'uso di uno stile aspro dalle sonorità ardite. Le Rime si fanno davvero petrose e la scena si connota di una palese vena grottesca il cui realismo risulta immediatamente fruibile.
Sinone ci si presenta in rissa con Mastro Adamo, falsario di monete. I due non si risparmiano né le ingiurie, né le percosse. Dante guarda e ascolta.

E io a lui: "Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?".

"Qui li trovai - e poi volta non dierno -",
rispuose, "quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo".

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.

Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,

dicendo a lui: "Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto".

Ond’ei rispuose: "Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
ma sì e più l’avei quando coniavi".
          E l’idropico: "Tu di’ ver di questo:
          ma tu non fosti sì ver testimonio 
          là ’ve del ver fosti a Troia richesto". 

          "S’io dissi falso, e tu falsasti il conio", 
          disse Sinon; "e son qui per un fallo, 
          e tu per più ch’alcun altro demonio!". 

          "Ricorditi, spergiuro, del cavallo", 
          rispuose quel ch’avëa infiata l’epa; 
          "e sieti reo che tutto il mondo sallo!".

          "E te sia rea la sete onde ti crepa", 
          disse ’l Greco, "la lingua, e l’acqua marcia 
          che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!". 

          Allora il monetier: "Così si squarcia 
          la bocca tua per tuo mal come suole; 
          ché, s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, 

          tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole, 
          e per leccar lo specchio di Narcisso, 
          non vorresti a ’nvitar molte parole". 

          Dante Alighieri, La Divina Commedia,
          InfernoCanto XXX, vv. 91 – 129. 
          Fonte: Wikisource

Ciò che conta è l'abiezione della pena e il degrado in cui versano i colpevoli di diffamazione. Ridotti "fuori dei sensi", come lo furono durante la loro meschina esistenza per l'efferatezza del sentire, emanano una puzza d'arso unto (Buti) data dal contrappasso della febbre altissima che li tormenta. Immagine, questa, ben descrittiva della condizione vile di quanti, travolti da un insano fervore, cercano di screditare i mal capitati accidentalmente sulla loro strada, spargendo parole sibilline e ingannevoli.
Semper valet, dunque, la lezione di Dante.

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